La balbuzie non è un semplice effetto della timidezza: recenti ricerche mostrano che ha basi neurobiologiche legate ai circuiti cerebrali del linguaggio e alla regolazione della dopamina.

La balbuzie ha radici nel cervello, non nella timidezza

Non è solo una questione di timidezza

Quando si parla di balbuzie, molte persone pensano subito all’ansia, alla timidezza o a un blocco emotivo. Ma le cose non stanno proprio così. Le ricerche più recenti ci mostrano che la balbuzie ha basi neurobiologiche: non è semplicemente una reazione emotiva, ma un fenomeno legato a come funziona (o disfunziona) il cervello quando produce il linguaggio.

Il cervello parla con difficoltà

Chi balbetta ha spesso una comunicazione meno fluida tra le aree motorie e sensoriali del cervello. Queste aree sono fondamentali per pianificare e controllare i movimenti necessari alla parola. Se i segnali tra queste zone non scorrono bene, può diventare difficile avviare o mantenere un flusso verbale fluido.

La dopamina ha un ruolo importante

Un altro elemento che è emerso dagli studi è il coinvolgimento della dopamina, una sostanza chimica che regola il movimento e la motivazione. Nella balbuzie si osserva spesso una iperattività dopaminergica, simile a quella presente in alcuni disturbi del movimento. Questo potrebbe spiegare perché, in alcuni casi, farmaci che agiscono sulla dopamina possono ridurre i sintomi.

Un disturbo che cambia nel tempo

La balbuzie non è sempre permanente. Circa il 5% dei bambini sperimenta una fase di disfluenza, ma solo l’1% mantiene il disturbo in modo cronico. La buona notizia è che in molti casi la balbuzie si risolve spontaneamente. Tuttavia, riconoscere precocemente i segnali di rischio è fondamentale per intervenire con strategie efficaci prima che il disturbo si stabilizzi.

Conclusioni

Conoscere meglio le basi neurobiologiche della balbuzie permette di pensare a interventi più personalizzati e basati sul profilo individuale della persona. Non si tratta solo di “parlare di più” o “calmarsi”: si tratta di aiutare il cervello a funzionare meglio durante la produzione del linguaggio, con terapie basate su evidenze scientifiche sempre più solide.

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